Ci sono titoli a cui non daresti molto credito, almeno ad un’occhiata superficiale. Poi però succede che li giochi e si rivelano essere un qualcosa di preziosissimo, come mai ti saresti aspettato all’inizio dell’avventura.
È il caso di OMORI, un RPG con forti tinte psicologiche e una spruzzata di horror. Sviluppato da un artista dallo pseudonimo di OMOCAT, il gioco è stato pubblicato nel 2020 per PC, arrivando due anni dopo anche su console.
In questa sede, non faremo un’analisi di OMORI, semplicemente perché analizzare un gioco come questo è molto difficile e richiede delle competenze che vanno oltre chi scrive. Tuttavia, voglio comunque discutere di questo titolo e del perché, ad un anno di distanza da quando lo completai, ancora oggi non solo non riesco a rigiocarlo… ma nemmeno a stare fermo al menù principale. Cercherò di parlarne evitando di fare spoiler, sebbene sia difficile farlo.
Per comunicare, lasciate che vi di un’infarinatura della trama il più generale possibile. In OMORI, il giocatore impersona un ragazzino con lo stesso del gioco, il quale sembra vivere in un mondo alquanto bizzarro, fatto di colori e stranissimi animali. Ma Omori non è solo in questo mondo. Con lui ci sono infatti i suoi amici Kel, Hero, Aubrey e Basil, oltre a sua sorella Mari, sempre intenta a fare picnic. Il gioco si svolge quindi con il gruppo di amici che gira per questo strambo mondo alla ricerca proprio di Basil, il quale scompare misteriosamente quasi all’inizio dell’avventura… ed io avevo preso il gioco proprio così. Per uno strano RPG, ma pur sempre nella media. Grave errore.

Perché Omori, come si scopre persino a livello di gameplay, basa tutta la sua interezza sulle emozioni. È un gioco che pian piano iniziare a scavare dentro di te, raccontandoti la sua storia attraverso i suoi dialoghi testuali (ma così tanto* espressivi), attraverso la sua colonna sonora semplicemente perfetta, attraverso la cura che è evidente in ogni aspetto. E tutto questo è incredibile, perché non penseresti mai che un gioco sviluppato con RPG MAKER possa avere una tale potenza espressiva.
C’è una domanda che il giocatore si pone immediatamente quando inizia il gioco. Come vi dicevo, il mondo con cui ci troviamo ad interagire è molto colorato.. tranne che per un elemento. Che è proprio il protagonista, che viene ritratto in bianco e nero. Perché Omori è il solo a non avere i colori? Ebbene, quando trovi la risposta a questa domanda, ti arriva una botta che non ti aspetteresti mai. Un pugno nello stomaco della peggior specie, di quelli che fanno più male. Quando scopri cosa c’è dietro quel mondo colorato, quei personaggi bizzarri, quei nemici strambi, non vedi più le cose con lo stesso occhio. Ed è in quel momento che scopri che OMORI non gioca solo con le emozioni dei personaggi, ma anche e soprattutto con le tue. Perché dietro quella patina colorata, viene raccontata la paura, l’insicurezza e persino la malattia.
Io vi assicuro che il segmento finale del gioco (perché dovete comprarlo e giocarci, poi mi ringrazierete) lo farete trascinandovi verso la fine. Ma non perché sarete stanchi di giocare, ma perché a livello emotivo vi rifiuterete quasi di andare avanti, di avere palesato quello che avrete già intuito. Perché fa male, troppo.

Si, lo so, vi sento. “Ma perché devo giocare un gioco si mi fa stare male?” Perché OMORI è un regalo. Un regalo a tutti quei giocatori che vedono aldilà dell’HD, del loot. Un regalo a chi certamente resterà a guardare fisso lo schermo quando scorreranno i titoli di coda, con quella canzoncina che poi risenti nel menù iniziale e che ti pietrifica sempre, facendoti salire puntualmente il magone, che se qualcuno te l’avesse detto all’inizio gli avresti riso in faccia e gli avresti dato del pazzo.
OMORI è un regalo a chi ama le storie, quelle scritte bene. Magari che sai non essere totalmente verosimili, ma cazzo se ti lasciano qualcosa dentro!