Non sono mai stato un appassionato di supereroi. Sconosco il MCU e quasi in egual modo il DCU. L’unico contatto che ho avuto con i supereroi è rappresentato dalla figura di Superman e i film che lo vedevano impersonato da Christopher Reeve (anche se recentemente ho visto e apprezzato l’ultimo film diretto da James Gunn). È per questo che all’uscita di Dispatch, prima opera di AdHoc Studio, non avevo il minimo interesse sul titolo, ma ne sentivo parlare costantemente in modo entusiastico soprattutto per la sua scrittura. Se mi conoscete un po’, saprete già quindi come si sia accesa la fiammella della curiosità; “è vero, di norma non è my cup of tea, ma che mi frega, al limito disinstallo e lascio perdere” . Risultato: ho finito gli otto episodi che compongono il titolo in due giorni. E ve ne devo assolutamente parlare.
Perché ci sono storie che nascono dal fragore delle battaglie, e altre che emergono dal silenzio che segue la sconfitta e Dispatch appartiene a queste ultime. Non racconta l’ascesa di un eroe, ma ciò che resta quando il mantello viene riposto, quando il simbolo si incrina, quando il mondo va avanti senza chiedere il permesso. È una storia che non urla il proprio mito: lo sussurra, da una stanza illuminata al neon, tra una chiamata d’emergenza e l’altra. Nel gioco noi impersoniamo Robert Robertson, ovvero quello che è (o meglio era) Mecha Man. Un eroe senza doni divini, senza sangue alieno. Il suo potere era una macchina, e quando quella macchina si spezza, la leggenda non crolla in modo spettacolare. Semplicemente… smette di funzionare. Dispatch comincia qui: nel dopo. Il protagonista non muore, non si sacrifica, non viene ricordato con una statua, ma viene assegnato a una scrivania, ad un pc, ad un headset con un monitor davanti. Al Superhero Dispatch Network. Ed è in questa scelta narrativa che il gioco rivela la sua vera natura: non una storia di supereroi, ma una storia sul prezzo dell’eroismo. Dal suo ufficio, Robert non combatte, ma coordina. Delle emergenze appaiono su una mappa, ovvero persone che chiedono aiuto e allora qui, la nostra squadra di eroi (che in realtà sono tutti degli ex-villian) attendono un ordine da Robert. Ogni decisione diventa quindi una responsabilità e ogni errore ha un volto chiaro e definito. Dispatch trasforma il suo gameplay (una ventina di minuti circa ad episodio su una durata di cinquanta) in una metafora narrativa: non sei tu a salvare il mondo, ma sei tu a scegliere chi rischierà di farlo. E quando qualcosa va storto, non puoi voltarti dall’altra parte.
La squadra che Robert coordina, la nostra squadra, lo Z-Team non è assolutamente fatta di icone, ma di scarti. Ex-criminali riabilitati, eroi falliti, individui che il sistema ha archiviato come casi irrisolti. Lo Z-Team non rappresenta la speranza, ma la possibilità, fragile e instabile, di una redenzione. E attraverso dialoghi brillanti, ironici e spesso dolorosamente sinceri, Dispatch costruisce personaggi che esistono oltre la funzione che svolgono. Qui l’eroe non è chi vince, ma chi continua a provarci nonostante tutto. L’azione resta fuori campo, le battaglie non si vedono e alla fine ciò che resta sono le voci. Il doppiaggio, intenso e misurato, è l’asse portante dell’esperienza (a tal proposito: Aaron Paul, voce di Robert, meritava almeno una nomination ai TGA per la sua magnifica interpretazione). Ogni pausa, ogni inflessione, ogni risata trattenuta che sia della stesso Robert o di Invisigal (interpretata da Laura Bailey), o di Blonde Blazer o di tutta la nostra squadra racconta più di mille esplosioni. Il comparto visivo, volutamente essenziale, lascia spazio alla parola, perché in Dispatch sono le conversazioni a cambiare il mondo, non i superpoteri.
E il tutto si inserisce in una narrazione bellissima ma anche “anomala”. La curiosissima struttura episodica del titolo non serve infatti a creare suspense artificiale (in questo AdHoc Studio è stata molto brava a non abusare di cliffhanger continui), ma a dare respiro ai personaggi. Ogni episodio è un frammento di vita, una crepa che si allarga, una verità che emerge. Non ci sono colpi di scena gridati (PER FORTUNA!), ma ci sono conseguenze. Ed è questo che rende Dispatch potente: la consapevolezza che ogni scelta dei personaggi (del giocatore molte meno, forse l’unica vera pecca del titolo) anche la più piccola, lascia un segno. Questo gioco non chiede al giocatore di essere forte, ma la sua attenzione. Chiede di essere presente, di ascoltare, di assumersi il peso delle decisioni e di accettare che salvare qualcuno non significa sempre vincere. In questo senso, il gioco compie un gesto raro: smitizza il supereroe senza distruggerlo. Lo rende umano. Fallibile. Necessario.
E alla fine, quando l’ultima chiamata viene chiusa e l’ufficio torna silenzioso, Dispatch lascia una domanda sospesa: se non puoi più essere il simbolo… puoi ancora essere utile? E la risposta di questo titolo su cui non avrei scommesso due centesimi non è trionfale, ma è onesta. Perché l’eroismo, l’essere un supereroe a volte, e ancor più di questi tempi, non è correre verso il pericolo. È restare. È scegliere. È rispondere. E in quel gesto semplice, umano, imperfetto, Dispatch centra perfettamente l’obiettivo facendo della sua narrazione una vera e propria arte, innalzandosi a quello che ritengo, personalmente, il titolo rivelazione di questo 2025 ormai arrivato alla fine.
Chiudo con un consiglio che potrebbe sembrare cattivo. Se ultimamente i personaggi e la narrazione di Warcraft vi sono sembrati un po’ meh, date una possibilità a Dispatch. Non costa molto e al limite farete come pensavo di fare io, lo disinstallerete. Ma se conosco un po’ la nostra community… credo che molti si ritroveranno in quello che abbiamo detto oggi.























