DISCLAIMER: Quest’articolo non vuole essere un paragone tra il gioco e la serie TV. Quello di cui si andrà a parlare vuole mettere l’accento su cosa l’adattamento televisivo è stato manchevole, soprattutto nella stagione 2 e nel personaggio di Ellie.
Nei mesi scorsi abbiamo criticato aspramente la seconda stagione di The Last of Us ed alcune sue scelte di gestione dei personaggi (uno in particolare). Ma da dove viene la nostra critica? Su cosa è basata? Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire cos’è The Last of Us. Ed è inevitabile iniziare proprio dall’inizio.
La saga di The Last of Us (Parte I – 2013 e Parte II – 2020) sviluppata da Naughty Dog è un’avventura post-apocalittica nota per la sua narrazione adulta e cinematografica. La storia ruota attorno a personaggi segnati dalle proprie ferite: Joel, “padre adottivo” di Ellie ed Ellie stessa, ragazzina immune al virus del cordyceps; e in Parte II anche Abby, prima antagonista. In questo contesto, temi profondi come paura, empatia, dolore e vendetta guidano costantemente la trama e lo sviluppo dei personaggi. Grazie a un design narrativo di grande impatto, The Last of Us è stato definito “con facilità il miglior gioco scritto di tutti i tempi”, capace di offrire un’“osservazione grezza e dolorosa della condizione umana”. In particolare, Parte 2 viene descritta come una riflessione sulla “natura distruttiva della sofferenza e della vendetta”, un percorso emotivo così intenso da sfidare le consuete aspettative del medium. Questa dualità horror-drammatica (anche se horror non è forse il termine più corretto) tra sonorità macabre e sentimenti genuini, crea fin da subito un’esperienza immersiva: gli effetti sonori crudi (il gorgoglio di una gola squarciata, il tonfo molle di un’ascia) ricordano che, dietro la storia di sopravvivenza, si cela prima di tutto un sottofondo di crudeltà e disperazione. Oggi proveremo ad analizzare come questi temi emergano nella trama e nei personaggi principali, e come il giocatore venga coinvolto emotivamente, soffermandoci sul design narrativo, la messa in scena, l’uso della violenza e il cambiamento di prospettiva della Parte 2. Ovvero, quello che è davvero mancato (soprattutto) alla seconda stagione della serie TV. E lo faremo inizialmente mettendo il focus su quelli che, per me, sono i quattro punti cardini dell’esperienza: la paura, l’empatia, il dolore e la vendetta, per poi spostarci sui due protagonisti di questa saga.
Paura
La paura pervade sia l’esperienza di gioco che l’interiorità dei personaggi. Sul piano ludico, The Last of Us costruisce un’atmosfera di tensione continua: l’ambientazione desolata, le scorte limitate e la presenza di infetti grotteschi costringono il giocatore a procedere con estrema cautela. Sul piano emotivo, anche i personaggi sono costantemente dominati dalle loro paure. Ellie confessa di odiare gli incubi, e Joel risponde “pure io”: gli incubi ricorrenti sono infatti sintomi di stress post-traumatico, un argomento che sarà molto importante più in là. La loro relazione stessa nasce dalla paura di Joel di subire un’altra perdita: nel proteggere Ellie, Joel riscopre la paura di perdere ancora qualcuno. In questo modo, la paura agisce come meccanica di gioco e come stato emotivo: da un lato mantiene alto il livello di ansia nel giocatore (ogni rumore inatteso può significare morte), dall’altro segna profondamente i personaggi (Joel diventa iperprotettivo, Abby è ossessionata dall’idea di vendicare il padre). Il risultato è un coinvolgimento diretto: il giocatore vive sulla propria pelle l’angoscia di attraversare ambienti oscuri o di affrontare dilemmi che potrebbero portare a nuove perdite.
Empatia
L’empatia è al centro della narrazione e il vero cuore di entrambi i viaggi, ma viene utilizzata in modo complesso. Il gioco lega il giocatore ai protagonisti con forza emotiva fin da Parte 1: grazie a scelte di regia e gameplay sottile, il giocatore si immedesima nelle sofferenze di Joel ed Ellie. Come nota Men’s Health, The Last of Us “usa l’empatia per manipolare il giocatore, costringendolo a giustificare azioni orribili in cui partecipa attivamente”. In altre parole, viviamo il dolore dei personaggi a tal punto da trovare accettabile anche la loro violenza più estrema (ad esempio, uccidere innocenti per amore di Ellie). Questa dinamica diventa ancora più evidente in Parte 2 grazie al cambio di prospettiva. Una decisione narrativa chiave è quella di far giocare dapprima come Ellie e poi, inaspettatamente, come Abby – la “nemica” che ha ucciso Joel. In quei momenti il gioco mette i giocatori nel corpo del personaggio ‘nemico’ Abby , un espediente che crea forte alienazione ma anche nuova comprensione. Questa svolta fa sì che il giocatore veda gli stessi eventi da punti di vista opposti, scombinando le proprie simpatie. Così Parte 2 aggiunge sfumature alla narrazione, costringendo i giocatori a vedere gli eventi da molteplici angolazioni, spesso portando a sentimenti di empatia verso personaggi inizialmente visti come nemici. Infatti, il gioco umanizza abbondantemente i personaggi: come sottolinea un’analisi, “TLOU II eccelle nel rendere umani i personaggi, facendo empatizzare il giocatore con individui con cui magari non sarebbe d’accordo”. Grazie a queste scelte, il giocatore è spinto a comprendere il dolore di tutti i personaggi, anche di chi compie la violenza, percependo come ogni azione (buona o cattiva) generi effetti a catena. In sintesi, The Last of Us sfrutta l’empatia per coinvolgere emotivamente il giocatore, ma allo stesso tempo ci ricorda che comprendere il dolore altrui non è sempre semplice o consolatorio.
Dolore (e trauma)
Il dolore e il trauma personale sono motori fondamentali delle vicende dei due titoli. Fin dall’inizio, Joel porta su di sé il peso lacerante della perdita: la morte di una figlia è inconcepibilmente traumatica e lo lascia non solo senza una figlia ma anche senza identità. Nei venti anni seguenti, Joel sopravvive soppesando questo dolore, proiettando su Ellie la speranza di un futuro diverso. E anche quest’ultima è segnata dalle perdite: fin dal primo episodio dichiara di temere la solitudine (è letteralmente la sua più grande paura, come confessa a Sam) e nell’iter narrativo subisce la morte di diversi personaggi e, nella Parte II, quella di Joel stesso. In generale The Last of Us racconta un universo spezzato, un racconto epico insanguinato di compassione, perdono e dolore dove i protagonisti finiscono spezzati ed emotivamente esausti. Entrambi i giochi mostrano come il trauma resti indelebile nei sopravvissuti: come abbiamo detto poco fa, Ellie e Joel soffrono di incubi ricorrenti , Abby e altri personaggi agiscono guidati dal vuoto lasciato dalla perdita di una persona cara. Parte 2 approfondisce questo lato dipanando paralleli: il dolore di Abby per il padre perduto si riflette in quello di Ellie per Joel, costringendo il giocatore a riconoscere che dietro ad ogni “cattivo” c’è una sofferenza propria. In effetti, possiamo dire che il gioco si configuri come una meditazione sul dolorosissimo dolore della perdita e sulla forza necessaria per superarlo. Quello che il design narrativo sottolinea e ci vuole comunicare è che non esistono eroi immuni al dolore. Come abbiamo detto più volte parlando di The Last of Us, in questo mondo non ci sono eroi né villain, ma soltanto umani spezzati portatori delle loro cicatrici. In estrema sintesi, il dolore funge da forza propulsiva nei personaggi, sia per lenire le loro ferite emotive sia purtroppo, in molti casi, per generare altra violenza.
Vendetta
La vendetta è il filo conduttore che chiude il cerchio drammatico, soprattutto in Parte 2. Dopo il tragico inizio in cui Joel viene ucciso, Ellie intraprende un viaggio di sangue per punire gli assassini. Tuttavia il gioco mostra chiaramente (ed il vero messaggio che si vuole veicolare) che la vendetta è un motore distruttivo. TLOU II descrive la vendetta non come qualcosa di glorioso, ma come una forza distruttiva e ciclica che porta inevitabilmente a più dolore e perdita, enfatizzando che la vendetta è vuota e che il peso della violenza non può essere annullato, in nessuna occasione. D’altronde, l’intero racconto lo conferma: ogni atto di vendetta scatena un contrattacco, incatenando i personaggi in una spirale senza fine. Man mano che si prosegue, si nota come nel gioco i personaggi siano intrappolati in cicli brutali di vendetta e ferocia, un inferno di violenza reciproca dove nessuna vendetta è finale. Persino Ellie, la “buona” della storia, diventa lei stessa un’entità vendicativa demoniaca, implacabile, dimostrando come la furia delle vendetta possa trasformare la vittima in mostro (di questo aspetto avevamo già parlato nell’articolo riguardante proprio la S2, qui.) Allo stesso tempo Abby scopre che vendicarsi di Joel non la libera dal proprio dolore, ma alimenta ulteriori catene di sofferenza. In questo modo The Last of Us costringe il giocatore a confrontarsi con dilemmi etici complessi: da una parte l’istinto di giustizia della vittima, dall’altra la realtà che ogni violenza genera nuova violenza. Il messaggio finale è netto: inseguire la vendetta significa alimentare altra sofferenza. In termini narrativi, la vendetta si presenta come il motore delle azioni (tragiche) dei personaggi, ma si rivela infine una trappola vuota, una cicatrice che nessuno potrà mai cancellare, rendendo l’esperienza ludica profondamente ambivalente.
Parte 1 vs Parte 2
Esauriti i nostri cardini e prima di parlare dei due protagonisti, facciamo un rapido confronto dei due titoli a livello puramente tematico. A livello narrativo, la differenza più eclatante tra i due titoli è il punto di vista. Parte 1 segue quasi esclusivamente Joel (con Ellie al suo fianco) lungo il cammino: un racconto lineare in cui il giocatore assume il ruolo di Joel come figura paterna protettrice. Joel, inizialmente freddo e cinico, si apre progressivamente al legame con Ellie: man mano la sua gentilezza nascosta prende il posto del vuoto di una figura paterna nella vita della ragazza, diventando la sua famiglia. La struttura di gioco è quindi focalizzata sulla relazione padre-figlia che si sviluppa tra i due in un mondo ostile. Parte II, invece, cambia radicalmente le carte in tavola. Si inizia nuovamente da Ellie (ora giovane donna), ma a metà vicenda il controllo passa ad Abby – colei che ha ucciso Joel. Questo cambio di prospettiva ribalta le alleanze narrative: il giocatore si ritrova “nel corpo del personaggio ‘nemico’ Abby (fonte di infinite polemiche, ai tempi) sperimentando direttamente il conflitto interno di lei. Nel confronto, Parte I appare dunque come una progressione drammatica dell’affetto tra Joel ed Ellie, mentre Parte II divide equamente la storia in due tragedie parallele. In Parte 1 il climax finale mostra Joel nell’atto estremo di uccidere tutti per salvare Ellie, suggellando il suo legame paterno. In Parte 2 la trama esplora invece le conseguenze di quella scelta da entrambi i lati: Ellie e Abby riflettono il dolore reciproco delle proprie perdite. Il risultato è che Parte II acuisce il conflitto morale. Ricordate? “Nè eroi, né villain”, perché ogni protagonista agisce mosso dal proprio senso di giustizia e dai propri traumi. In breve, se The Last of Us Parte I racconta la nascita di un legame umano profondo, Parte II usa quel legame per mostrare lo specchio della vendetta: il titolo costringe a vedere la storia da due prospettive opposte, rimettendo in discussione ciò che si pensava giusto e facendo percepire empaticamente le ragioni di entrambi i “nemici”.
Detto questo, passiamo all’ultima parte di questo viaggio. Parliamo dei suoi due grandi protagonisti e del rapporto che li lega, partendo proprio da quest’ultimo.
Un rapporto in evoluzione
All’inizio di Parte 1, Joel ed Ellie sono due estranei sospettosi. L’ambientazione post-apocalittica li rende entrambi guardinghi nei confronti degli altri: sono semplicemente due individui diffidenti che non danno con tanta facilità fiducia ad uno sconosciuto. Joel, provato dalla morte della figlia Sarah e da vent’anni di lotte, è riluttante a sentirsi responsabile di una nuova bambina. E anche Ellie, cresciuta in quel caos, è in principio scontrosa e abituata alla sopravvivenza autonoma. Il gioco costruisce con cura il lento avvicinamento tra i due: coinvolge il giocatore condividendo il trauma iniziale di Joel (in quel devastante ed indimenticabile prologo), facendo così in modo che lo stesso giocatore senta sua quella perdita proprio come Joel, capendo subito il perché del suo atteggiamento cauto. Poco a poco Joel ed Ellie imparano a fidarsi. La narrazione ritarda intenzionalmente il loro schietto affiatamento, dando spazio alla crescita reciproca, lasciando che il loro rapporto cresca lentamente nel tempo. Man mano che attraversano insieme situazioni pericolose (infetti e nemici umani), il reciproco rispetto e affetto si rafforzano fino a un vero legame affettivo: come ha scritto a più riprese la critica, la relazione Joel–Ellie è “ciò che ha fatto funzionare The Last of Us”, poiché il cuore del gioco risiede proprio in questa dinamica di protezione e crescita comune.
Joel Miller
Chi è Joel? Joel è un uomo segnato da perdite devastanti. Nel prologo di Parte 1 perde la figlia Sarah, evento che gli toglie identità: tutto ciò che era ruotava intorno a lei. Proteggerla era il suo unico scopo, perderla è letteralmente insopportabile. Questo lutto gli porta un profondo trauma e senso di colpa (disturbo da stress post-traumatico) che lo accompagnano per i successivi vent’anni. La paura di ripetere quella sconfitta lo rende inizialmente cinico e reticente a legarsi (Joel contrasta sempre il pensiero che Ellie possa sostituire sua figlia). Ma nonostante tutto, Joel sviluppa grande empatia nei confronti di Ellie. Nel corso del viaggio inizia a comportarsi sempre più come un padre adottivo. Anche se nei dialoghi si mostra a volte brusco, i suoi gesti rivelano il contrario: si prende cura di lei, le insegna a difendersi ed è pronto a sacrificarsi per lei. Questa graduale apertura all’affetto è favorita dalla sceneggiatura e dal design: il giocatore impersona Joel mentre costruisce il proprio rapporto con Ellie, sperimentando le sue esitazioni prima e i suoi momenti di dolcezza poi. Ellie crea una situazione con cui molti giocatori possono identificarsi (proteggere appunto una bambina in pericolo) facilitando l’immedesimazione nel rapporto padre-figlia. Questo spiega perché, verso la fine di Parte 1, Joel difenda Ellie a ogni costo: è disposto a compiere un atto orribile (uccidere gli scienziati delle Luci e la stessa Marlene) per salvarla, facendo emergere la potenza della sua empatia protettiva. Sebbene moralmente discutibile, l’azione è resa comprensibile dalla sceneggiatura: Joel sa che ciò che sta facendo è sbagliato, ma non gliene importa, poiché il benessere di Ellie supera ogni etica astratta. Nel primo capitolo Joel non ricerca esattamente vendetta, ma agisce per paura e amore, preoccupato di fallire di nuovo dopo la morte di Sarah. Tuttavia, la sua decisione estrema di sottrarre Ellie alle Luci e alla speranza di una cura in nome di un legame personale può essere vista come una forma di rivalsa contro il destino, sebbene non motivata da odio. In Parte II, proprio quel destino lo coglie: viene aggredito e ucciso da Abby in un drammatico atto di vendetta. Questo sottolinea le conseguenze delle scelte di Joel e l’idea tragica che le azioni violente instaurino un ciclo di vendetta. Dal punto di vista del giocatore, la morte di Joel scatena in prima persona la rabbia e il dolore di Ellie, coinvolgendolo in un cortocircuito morale: la perdita di Joel rompe definitivamente il loro equilibrio affettivo. Da quel momento, Ellie non sarà mai più la stessa.
Ellie Williams
Ellie porta con sé una sofferenza profonda. Ha perso i genitori in tenera età e convive con l’idea di essere l’unica immune al cordyceps. In Parte I soffre per il sacrificio dell’amica/fidanzata Riley e per l’eventualità che Joel la abbandoni: durante la conversazione finale del gioco, Ellie rimprovera Joel di averle «tolto una morte che desse un senso alla sua vita» con la sua scelta di salvarla. E proprio durante Parte II il trauma si acuisce: assistere alla brutalità della morte di Joel da parte di Abby è un evento inaspettato e devastante. È l’evento che la lascia intrappolata in uno stato di PTSD. Ellie vive flashback e incubi persistenti, come quando rivive la scena tortuosa con Nora: in quei momenti non si sente trionfante ma arrabbiata, poi scioccata e disgustata dalle sue stesse azioni. La paura di un ulteriore abbandono o di nuova violenza la pervade, spingendola a reagire in modo estremo. Ma nonostante l’odio che la travolge, Ellie mostra a tratti una profonda capacità di comprensione. Il gioco stesso alterna le prospettive, costringendo il giocatore a immedesimarsi anche in Abby, scoprendo gradualmente le motivazioni umane alla base della sua crudeltà. Così, Ellie stessa viene messa alla prova: pure nel cuore della vendetta, spinge per capire Abby (in parte come sequel diretto del legame affettivo con Joel). Il culmine di questa complessità è la scena finale: con Abby tra le sue mani, Ellie sceglie (col giocatore che la controlla) di non completare la vendetta.“Ma allora che senso ha avuto tutto questo?” Questa scelta morale, sviluppata attraverso il gameplay e quindi alla proattività del giocatore, dimostra come l’empatia reciproca (Ellie riconosce in Abby frammenti del proprio dolore) si intrecci con la vendetta, portandola a un gesto di pietà inatteso. Quella è la chiusura del cerchio, la fine del viaggio ed il cuore pulsante di ciò che si voleva comunicare fin da quando il viaggio era iniziato in Parte 1. Ma una cosa più di tutte le altre è mancata nella stagione 2. Il tema della vendetta guida Ellie in Parte II. Dopo l’omicidio di Joel, la sua rabbia prende il sopravvento e intraprende un percorso distruttivo. Ellie è consumata dalla sua rabbia, che dà il via al suo cammino di vendetta per tutto il gioco. Il gioco enfatizza (ed è proprio questo il punto che la serie fallisce clamorosamente) come questo sentiero la consumi: Ellie è accecata dall’odio e crede che la vendetta la renderà integra; tuttavia, questa ricerca la porta a perdere tutto (così come succede ad Abby). Ellie perde se stessa e tutte le persone a cui tiene, realizzando così la sua più grande paura esplicitata in Parte 1, spinta dall’odio e dalla vendetta. Alla fine, il giocatore vede Ellie distrutta: l’esperienza dimostra una lezione narrativa netta: il mondo non è solo come lo percepisci tu, e ogni azione ha conseguenza e la vendetta ti toglie ciò che ti è più caro. Grazie alle scelte del gameplay e alla narrazione interattiva, il giocatore assorbe in prima persona questo terribile costo emotivo.
E termina così questo lungo viaggio. The Last of Us offre un’esperienza emotivamente intensa e ricca di sfumature, un’esperienza umana che mai prima di aver giocato questi due titoli avevo esperito a livello videoludico. Il connubio tra gameplay teso, regia cinematografica e violenza graficamente realistica coinvolge il giocatore al punto da farlo sentire complice dei dilemmi dei protagonisti. Paura e dolore non sono meri accessori di genere, ma componenti fondamentali della storia: li condividiamo attraversando ambienti ostili e vivendo le tragedie di Joel, di Ellie e di Abby. Umani. Nel senso più realistico che possa avere un videogioco.























